Preliminari di vita



Ieri si è conclusa la prima settimana di scuola di Yu Tao e Ming Tai. Yu Tao e Ming Tai sono i nomi con cui le rispettive insegnanti di cinese chiamano i miei figli che, per la terza volta nella loro vita, ricominciano a studiare mandarino. Ma se in passato hanno accettato la cosa senza fare troppe rimostranze, questa volta Yu Tao, alias Tommaso, mi ha chiesto perché, come seconda lingua, non avessi scelto lo spagnolo che è più facile. Gli ho ricordato i suoi natali taiwanesi e il fatto che qui a Singapore lo spagnolo non rientra nelle lingue ufficiali.

Yu Tao, scelto grazie ai suggerimenti della mia amica Bess, vuol dire “energetic and healthy” mentre Ming Tai è il nome che avevano già dato a Matteo a Taipei di cui, però, non ricordo il significato, forse ’tonto’ ma indagherò.
Per una strana coincidenza hanno invece entrambi due uomini come Homeroom teacher, cosa che li ha gasati molto anche se ho già capito che li faranno lavorare di brutto.
A scuola devono indossare sempre la mascherina, tranne quando fanno ginnastica e mangiano, e rimanere seduti al proprio banco, senza rotelle, mantenendo per quanto possibile una certa distanza dai compagni di classe. Hanno un paio di intervalli per sgranchirsi le gambe e alle tre del pomeriggio sono congedati. Soffrono? Non mi sembra.
Al mattino, gli studenti della scuola elementare e quelli delle medie e del liceo entrano da due ingressi separati. La febbre non viene misurata e questo non per questioni logistiche - se volessero potrebbero assumere e schierare una decina di umani armati di thermo scanner - o per mettere in dubbio la buona fede dei genitori - leggevo sul Corriere della Sera di qualche giorno fa l'intervista ad un pediatra italiano che si dichiarava fortemente contro la misurazione della febbre degli studenti a scuola perché perché nessuno più di una madre o di un padre é in grado di valutare se il proprio pargolo sia malato o meno, quando se c’è una categoria di cui non fidarsi siamo proprio noi genitori - ma perché, oltre al fatto che anche qui i bambini sono considerati meno esposti al Covid degli adulti, nessuno si azzarderebbe mai a mandare il figlio o la figlia con la febbre a scuola. Il Government lo saprebbe ancora prima che i genitori gliela misurassero.
Padri e madri sono tenuti alla larga dal campus. Ci è consentito varcare il cancello solo alle 15.45 in punto per recuperare i pargoli che sono riconsegnati a scaglioni: escono prima i più piccoli e a distanza di cinque minuti le classi dei più grandi.
Verso le 15.35 si crea un lungo serpentone di genitori distanziati ad un metro esatto gli uni dagli altri che, sotto il sole cocente o la pioggia a tamburo battente, attende di poter varcare la soglia della scuola e che tanto mi ricorda la coda dei familiari dei detenuti fuori dal carcere di San Vittore. All’ingresso, inutile dirlo, bisogna lasciare le proprie generalità oppure registrarsi tramite l’apposita applicazione.
Purtroppo il social distancing e le mascherine non favoriscono la socializzazione e, a parte un padre originario di Mumbai, non ho ancora trovato qualcuno con cui scambiare due parole.
Il Covid ci sta definitivamente disabituando a comunicare. Giovedì pomeriggio ho partecipato ad una riunione con il maestro di Matteo su Google Meet, l’alternativa a Zoom. Eravamo in quattro e gli altri tre genitori quando avevano da fare una domanda la digitavano invece di attivare il microfono e farla a voce. Ma perché, visto che non mi risulta che il virus si possa trasmettere attraverso lo schermo del computer?
“Silenzio, parla il Covid” potrebbe essere lo slogan rubato ad una famosa marca di pasta ma adatto a questo periodo e a questo posto. Ed è proprio questo silenzio quasi assordante la cosa a cui faccio più fatica ad abituarmi venendo da un paese dove il volume è alto, dalle voci della gente per strada o al cellulare a quello dei clacson e delle radio nelle macchine che ti sfrecciano di fianco sporche e ammaccate.
Ieri, mentre camminavo verso casa con la musica fortissima nelle orecchie - il mio modo per ovviare a tanta quiete - una tizia al volante di una Mercedes grigia che sembrava nuova di pacca, ma qui le macchine sembrano tutte uscite dal concessionario cinque minuti prima, non si è fermata sulle strisce pedonali quando stavo per attraversare. Credo si sia poi diretta al distretto di polizia più vicino per costituirsi e consegnare la patente senza sapere che, in realtà, quella sua svista mi aveva fatto sentire improvvisamente a casa. Se mi avesse poi strombazzato le avrei chiesto l’amicizia su Facebook.

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