Bugie e arrivederci

Il 1 luglio abbiamo lasciato Nuiok. Tutto è stato rimesso negli scatoloni e caricato sulla barca che dovrebbe arrivare a Shanghai ai primi di settembre. 
Gli ultimi giorni sono stati, come da copione, i più difficili. 
Ad alcune persone, presenze comunque marginali della mia esistenza ma non per questo meno significative, ho mentito. Non ce l’ho fatta a spiegare, per l’ennesima volta, che ce ne saremmo andati, che, si, eravamo rimasti davvero poco nella Big Apple, che, no, non sapevo quanto saremmo stati a Shanghai, che, si, non è facile spostarsi così spesso ma ormai ci siamo abituati, che, no, i bambini non sembrano ancora soffrire di tutti questi cambiamenti, che, no, Shanghai non è così inquinata come sembra, che, si, abbiamo trovato la scuola e anche la casa ma che, si, alla fine è una grande rottura di palle e che il mio cuore ne esce sempre a pezzi. 
Non avrei nemmeno retto ad un ennesimo how exciting da chi non aveva né le capacità cerebrali, né il tempo o la voglia di approfondire la notizia e di, sottopormi, poi all’interrogatorio di cui sopra.

Ho mentito, dunque, a Kathe, la mia parrucchiera lesbica. Appassionata di musica classica, ex violinista e con una vetrina nascosta dietro un paio di alberi sulla 83ma strada e Amsterdam Avenue, mi ha tagliato e coperto i capelli ormai “bianco trasloco” un paio di volte per un prezzo davvero onesto considerata la concorrenza.
Abbiamo chiacchierato di viaggi, di musica e di fotografia mentre mi infilava la testa in una guaina di nylon che avrebbe poi forato per estrarre i ciuffi da mascherare con sapienti colpi di sole, una tecnica rapida ed efficace ma abbandonata, ormai, da molti colleghi per giustificare tempi e costi più lunghi.
Una cosa è certa, ogni volta che finalmente trovo una buona parrucchiera ci spostiamo. A questo punto se dovessi trovarmi bene  a Shanghai, anche solo per scaramanzia, mi farò crescere i capelli sino ai calcagni.

Ho mentito agli amici del Caffè Earth dove mi rifugiavo al mattino, dopo aver accompagnato i bambini a scuola, e dove ho scambiato piacevoli chiacchiere con diversi sconosciuti alcuni dei quali sono poi diventati buoni amici.
Ci sono andata per un ultimo pranzo un paio di giorni prima di partire. 
Le grandi finestre all’angolo fra Broadway e la 97ma strada erano aperte per accogliere l’estate, i tavolini fuori erano pieni di bocche in movimento. Mi sono seduta all'interno, al mio solito posto vista strada, e ho ordinato un avocado toast che è anche la password del loro wifi. 
I ragazzi che ci lavorano mi hanno salutato con il loro solito sorridente “so good to see you”, abbiamo scherzato sugli europei di calcio e mi hanno poi chiesto delle vacanze. 
Vado in Italia, ho detto, e poi in Israele
Wow che invidia. Allora ci vediamo quando torni. 
Si, certo, ho risposto e intanto sentivo, dentro di me, una vocina di rimprovero per quell’ennesima bugia.

Ho, invece, salutato Tanzine, la mia housekeeper tibetana, una piccola grande donna silenziosa, dall’età indefinibile, con due bambini più o meno dell’età dei miei, che vive nel Queens e che è arrivata negli Stati Uniti diversi anni fa dopo peripezie varie.
Sicuramente una delle persone più sagge e di buon senso che abbia conosciuto a Nuiok. Di lei mi ricorderò sempre il fatto che, anche in pieno inverno, si presentasse a casa mia senza calze perché le davano fastidio.
E’ stato poi il turno di Olivia, la babysitter, una bellissima ragazza di origine giamaicana di cui, soprattutto, Tommaso si era fortemente invaghito e a cui si riferiva con un “my girlfriend” nonostante la notevole differenza d’età. Certo che vedermela comparire il venerdì pomeriggio tutta in tiro per la serata che avrebbe poi trascorso con l’aitante fidanzato pompiere mi faceva improvvisamente sentire decisamente vecchia, con un ricordo ormai davvero sbiadito delle mie serate mondane di gioventù.

L’arrivederci che si è invece rivelato più difficile di quanto avessi previsto è stato quello con Elliot, il mio portiere. 
Decisamente scorbutico all’inizio, si è invece molto legato alla sottoscritta anche perché forse l’unica, nel palazzo, a salutarlo cordialmente, cosa che ho pagato con chiacchierate interminabili mattutine e pomeridiane tanto che, per essere sicura di arrivare puntuale a scuola o dovunque dovessi andare, uscivo almeno un quarto d’ora prima. Argomenti prediletti, il tempo, Donald Trump, Elias, un collega perditempo ma ormai sulla via del pensionamento, e la cucina italiana. 
Quando gli ho annunciato la nostra partenza, ho seriamente temuto che gli venisse un infarto. Si è portato le mani al petto e, con le lacrime agli occhi, mi ha detto : "I’m so sorry. I’m gonna miss you so much guys".
Era fine marzo e allora io, che proprio non ce la faccio a far stare male le persone intorno a me, gli ho regalato un filo di speranza con un’ennesima bugia che, confesso, mi sono raccontata io stessa fino alla fine, e cioè che forse avremmo trovato un modo per rimanere. Così ogni giorno, tranne dal venerdì alla domenica quando era in congedo, Elliot mi guardava bisbigliando un “any news guys ?” ed, al mio “not yet” riattaccava con il suo “I’m gonna miss you so much guys”.

Ho sempre creduto che, nel palazzo, alla fine di noi importasse solo a lui e forse, ma in maniera minore, ad Alex il superintendant, un ragazzone russo che io chiamavo anche solo per farmi cambiare una lampadina. 
I rapporti con gli altri inquilini sono sempre stati pressoché inesistenti a cominciare dai nostri vicini di casa. 
La signora dell’appartamento di fianco, incontrata diverse volte, è salita con me in ascensore un mese prima che ce ne andassimo e mi ha chiesto “A che piano va ?” - “Al suo”, le ho risposto - “Ah siamo vicine di casa ?”
Il marito, invece, forse un po’ più connesso con il mondo esterno, ha però smesso di salutarmi quando un giorno, sempre in ascensore, mi ha chiesto come si chiamasse Tommaso. “Ma Tommaso non è un nome ebreo. Qual’è il suo nome ebreo ?” - “Non ha un nome ebreo”, gli ho risposto secca, “perché io non sono ebrea”. La cosa lo deve avere sconvolto, sapendo che, invece, il padre discendeva, come lui, da Mose.

Tuttavia, qualche giorno prima di lasciare la casa, ho sentito bussare alla porta e mi sono trovata sullo zerbino una bellissima signora non più giovanissima dall’aria un po’ spiritata, con degli occhi blu trasparenti e quei tipici capelli corti delle anziane con ciuffi ormai in via di estinzione ma ancora ribelli al pettine. C’eravamo già incontrate diverse volte e, si, era una delle poche che rispondeva ai saluti in ascensore e con cui, forse, ho anche scambiato un paio di parole nell’arco di un anno ma nulla di più. Mi ha guardato e, seria in volto : “I’m devasted by the news that you’re leaving. Mi mancherete davvero molto qui nello stabile.” Se non fosse stato per l’età, avrei seriamente pensato che mi prendesse in giro o che si fosse sbagliata di appartamento.
E invece no, mi ha raccontato che, per lavoro, era andata spesso a Shanghai, città che adora dove, mi ha detto, "you will have an amazing time". Si è offerta di ospitarci in casa sua durante il trasloco, proposta che mi sono sentita di declinare, e mi ha detto di scriverle se mai avessi avuto bisogno di qualcosa da Nuiok. 
Quando se ne è andata, da un lato ero anche commossa dalla visita e dalle parole d’incoraggiamento di quella che, in fondo, era una sconosciuta, dall’altro ho capito perché, qui, siano più o meno tutti in terapia.

Anyways, il momento finale degli arrivederci quando ti congedi da persone con cui hai condiviso la quotidianità di mesi e che, nei diversi modi possibili, hanno comunque arricchito la tua vita, è la parte che ancora digerisco e gestisco a fatica di questo eterno peregrinare. Preferirei andarmene senza dire una parola, senza un ennesimo abbraccio, senza un altro sorriso malinconico o le lacrime trattenute a fatica.
Un giorno ci rivedremo. Per il momento vi metto tutti in valigia e vi porto con me nella prossima tappa.



Commenti

  1. La mia scorpacciata di arretrati continua e credimi, leggerti e' un tuffo oltre Oceano (beh, anche più Oceani) ad occhi aperti, anche se qui e' rotolata giù la lacrimuccia...

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