Welcome to Israel. L'approdo
Ma io soprattutto chi sono ? |
Il passaggio Cina-Israele è stato a dire poco frastornante e per la prima volta in vita mia sono in pieno cultural shock proprio nell'unico posto, fra i tanti che ho girato, a me più familiare.
Sarà che sono anche approdata all'aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv dopo un'ultima settimana a Shanghai di beata solitudine.
Spediti in anticipo figli e coniuge in Israele, sono rimasta ben volentieri ostaggio della Cina che, per lo sbrigo di una serie di menate burocratiche legate alla nostra partenza, mi ha sequestrato il passaporto per qualche giorno.
Una congiuntura astrale favorevole combinata alla mia grande scaltrezza hanno fatto si che il coniuge non avesse altra scelta che aderire al mio piano di approdo ritardato in Israele.
Quelli a Shanghai da sola sono stati giorni di silenzio, pace, passeggiate, aperitivi e cene senza orari. E' incredibile con che rapidità ci si possa dimenticare di essere la madre di o la moglie di e goderne profondamente.
Tuttavia, la magia è stata bruscamente interrotta già dal casino levantino dell'aeroporto di Istanbul dove ho atteso per quattro ore la coincidenza per Tel Aviv. Sempre meno cinesi, nella media longilinea, glabri e discreti, sempre più uomini sovrappeso, pelati e pelosi con valigie enormi.
Ad accogliermi a Tel Aviv dove al controllo passaporti ho avuto un momento di disorientamento e di crisi di identità del tipo io chi sono e da dove vengo,
oltre ai miei figli, coniuge e famiglia, che ho rivisto davvero volentieri, anche un
gruppo di improbabili agenti immobiliari che avrebbero allietato le settimane successive di frenetico house hunting.
L'impresa si è rivelata più difficile del previsto in parte perché TLV è una città cara per cui i prezzi degli affitti sono alle stelle e in parte perché gli appartamenti abbordabili o sono nuovi di pacca ma piccoli, sprovvisti di armadi e di elettrodomestici, oppure datati e in più tenuti davvero in condizioni pietose da chi ci abita.
Mi è capitato diverse volte di entrare in casa di persone, anche rispettabili, con la netta sensazione che fossero state appena derubate. Pochi, forse in due, si sono presi il disturbo di raccogliere mutande sparse sul pavimento, di lavare i piatti sporchi impilati nel lavandino o, voglio esagerare, di rifare i letti.
Un tizio mi ha addirittura accolto semi nudo, coprendosi le parti intime con un asciugamano, scusandosi che era appena rientrato da un viaggio; il marito di una, invece, pisolava a letto e non si è scomposto di una virgola quando sono entrata a ispezionare la stanza; il bambino obeso di un'altra mi ha fatto aspettare mezzora in piedi sua madre di ritorno dal lavoro mentre stravaccato sul divano si ingozzava di patatine unte.
Ad accompagnarmi in queste visite da cui emergevo sempre più allucinata e depressa, un ensemble di estate agents decisamente diversi da quelli con cui ho avuto a che fare in passato ovunque nel mondo e Shanghai compresa dove mi ero permessa qualche attacco di stizza nei confronti del povero Eric che, comunque, nel giro di un paio di giorni aveva capito che cosa stessi cercando e me lo aveva anche trovato.
L'agente immobiliare israeliano si offende se gli dici, per altro obiettivamente, che l'appartamento che ti ha fatto vedere fa schifo. La prende sul personale dimenticandosi che la cliente sono io e non lui.
Nel momento in cui lasci trapelare un vago interesse per qualcosa, ti mette già in mano il contratto d'affitto e la penna con cui firmare l'assegno per la commissione che chiederà un po' a tutti e magari anche a tuo fratello.
L'esigenza di concludere adesso/subito/in questo istante è un tratto caratteristico degli Israeliani, soprattutto quando ci sono in ballo i soldi, perché per loro davvero del diman non v'è certezza. Con un passato alle spalle certo non incoraggiante in questo senso, temono infatti di ritrovarsi in mezzo al Mar Rosso per di più senza uno con le palle come Mosé.
Per la sottoscritta che può permettersi una prospettiva sul futuro più rosea e a lungo termine, questa pressione snerva e alla fine, a quel paese, li mando io direttamente.
Resta comunque fondamentale familiarizzare con il gergo utilizzato dai "cerca case" in modo da evitare inutili perdite di tempo o facili disillusioni.
Fra le espressioni più gettonate emerge quella di binian boutique, o immobile boutique, dove quel "boutique" vorrebbe fare eco ai boutique hotels che spopolano ultimamente per l'offerta di ambienti particolarmente eleganti e raffinati.
Io in quel "boutique' ho riposto tante speranze, dopo aver visto tutto quello che "boutique" non era, ma conoscendo i miei polli, ero certa dell'equivoco.
E infatti, a Tel Aviv, i binian boutique altro non sono che dei palazzi con un androne pulito senza sabbia e pattume vario ed un portinaio non in canotta.
Quelli poi più "boutique" di altri hanno nelle hall agghiaccianti divani di pelle umana e alle pareti giganti decorazioni di plastica colorata intrecciata che gli agenti ti mostrano con lo stesso tono impostato di un critico d'arte davanti a un Rothko.
E' poi molto probabile che in un binian boutique esistano delle mini penthouse, appartamenti più mini che penthouse conosciuti da noi come ultimo piano
termine decisamente meno chic ma più sensato.
Sorvolo sulla divisione degli spazi e sulla scelta di materiali e arredi ma ad un agente che me la menava sul fatto che l'appartamento in questione fosse stato sistemato da un designer molto famoso ho fatto presente che francamente mi sembrava un bordello di lusso. Non ha gradito.
Credo di aver visitato tutti gli appartamenti disponibili a nord di Tel Aviv, in una zona che si chiama Ramat Aviv, schiacciata fra il mare e l'Ayalon, la superstrada che attraversa la città da sud a nord. In uno dei quartieri di Ramat Aviv abitano anche i miei suoceri ma, con almeno un paio di isolati di distanza, la cosa non mi turbava più di tanto.
Volevo solo un posto comodo, centrale, vicino al mare ma comunque ben collegato alla scuola dei bambini, che è ad una decina di chilometri di distanza, e al lavoro del coniuge. Bene, questo posto non esiste se non nella mia immaginazione.
Ciononostante non mi sono data per vinta e per sedici giorni consecutivi, dalla mattina alla sera, ho perlustrato come un segugio tutti i complessi residenziali di Ramat Aviv dai nomi più inconsueti, Ramat Aviv Aleph (A), Ramat Aviv Bet (B), Ramat Aviv Gimel (G), Ramat Aviv Hadasha (Nuova Ramat Aviv) e blah, blah, blah.
Ad una sola cosa non ero infatti pronta a rinunciare e non avrei mai rinunciato : volevo un appartamento con delle finestre da cui vedere i tetti della città.
Dopo sole 48 ore, già mi mancavano la dimensione, le distanze e gli scorci della grande città. Mi mancava la metropolitana che ti inghiotte e ti risputa in zone sconosciute dove non hai riferimenti, mi mancavano i marciapiedi larghi e la folla di crapini neri che ti investe di suoni incomprensibili e poi passa oltre, mi mancavano gli odori ma anche le puzze, la biancheria stesa agli incroci e, ovviamente, Muji.
Al diciassettesimo giorno di ricerca abbiamo finalmente trovato lo spazio che ci ospiterà nel corso dei prossimi mesi e non mi azzardo a dire anni visti i recenti trascorsi. E con la coerenza che mi contraddistingue sarà per l'appunto una casa, e non un appartamento, a Hertzelia Pituach, sobborgo a nord di Tel Aviv ma perlomeno sul mare.
Dalla finestra, invece dei grattacieli, vedrò un ulivo.
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