In taxi


A Singapore, come anche a New York e a Shanghai, abbiamo rinunciato all’automobile, affidandoci alla guida più o meno esperta dei tassisti di Grab, l’Uber locale.

A me è sempre piaciuto prendere il taxi non tanto per la comodità di avere qualcuno che mi spostasse da un punto A a un punto B, quanto per le chiacchierate con il/la tassista di turno che si sono spesso rivelati dei personaggi interessanti con storie curiose alle spalle prima della decisione di mettersi al volante.
Ma mentre a New York quelli in cui mi sono imbattuta, tranne un simpaticissimo ragazzo nigeriano di Brescia immigrato nella Grande Mela per cercare fortuna e pochi altri, erano per lo più nevrotici e scostanti e con quelli di Shanghai la conversazione non decollava mai dal “giri a destra/a sinistra, può entrare nel portone?, si può fermare qui, vengo dall’Italia” perché più di questo il mio cinese striminzito non consentiva,
a Singapore ho trovato pane per i miei denti.
Alla guida ci sono quasi sempre signori un po’ attempati, gli Uncle come li chiamano qui, che in pensione decidono di mettersi al volante, alcuni sembra per la prima volta, per fare qualche soldo in più ma soprattutto per sfuggire alle mogli, le Auntie.
Una bella spolverata dunque ai loro bolidi, vecchi modelli di auto giapponesi tenute in maniera impeccabile, e l’abitacolo diventa la loro seconda casa: sul cruscotto sono sistemate cianfrusaglie varie, soprattutto pupazzetti, dalle ventole dell’aria condizionata penzola un Arbre-magique e di fianco al volante sono appiccicate con lo scotch le foto dei nipotini. Fra i sedili frontali, invece, sono incastrate delle borse tipo Ikea contenenti un po’ di tutto da cui però spunta sempre la cannuccia di liquidi dissetanti di difficile identificazione.
Il volume della radio è sempre alto e il gusto musicale degli uncle spazia da canzoni romantiche cinesi ai successi del pop americano che canticchiano mentre iniziano a curiosare sulla tua vita: Where are you from? Italy La! dove quel La che infilano sempre alla fine di ogni frase è una contaminazione del Singlish, un pasticcio dialettale nato dal miscuglio dell’inglese, che pur resta la lingua ufficiale, con tutte le altre lingue che si parlano a Singapore, dal cinese al malese.
E così, fra frenate brusche e tardive ai semafori rossi, sorpassi azzardati e guida a passo di lumaca anche quando le strade sono vuote, scatta l’amicizia e il relativo ping pong di domande.
Gli uncle di Grab sono infatti una fonte preziosa di informazioni sulla città e sulla sua storia a partire dal cibo che è davvero un’ossessione quasi peggiore della nostra. La seconda domanda di rito dopo il Where are you from è Do you like the food here? E al Yes, I do, scatta la lectio magistralis sui diversi tipi di piatti e i migliori food center dove trovarli. Io ormai mi tengo un piccolo quaderno in borsa dove prendo appunti che mi riprometto sempre inutilmente di studiare prima di incappare nel prossimo uncle.
Gli uncle amano anche condividere ricordi di gioventù, di quando Singapore non era ancora la città globale e competitiva di oggi, e colgo spesso nei loro occhi la nostalgia ma anche l’orgoglio per quello che questo posto è diventato grazie soprattutto alla loro generazione che ha dovuto tenere il passo con cambiamenti rapidi e radicali. Sono davvero fortunata ad avere accesso, almeno per qualche minuto, al patrimonio inestimabile delle loro storie di persone comuni, nonostante a fine corsa rimpianga sempre di non aver messo insieme al quadernino anche delle pastiglie di Xamamina.
Il più intraprendente però l’ho incontrato qualche giorno fa. Siamo partiti con il piede storto perché ho avuto l’audacia di aspettarlo 50 metri più in là rispetto al pick-up point per evitare a lui ma anche a me un’inversione a U e quindi allungare a entrambi la prospettiva di vita e lui si è innervosito. Poi si è assicurato che indossassi la mascherina correttamente e che mi fossi messa la cintura. Ci mancava solo che mi chiedesse se avessi fatto pipì ma quando mi ha detto che era un ingegnere in pensione, ho capito e l’ho perdonato. Del resto, passati tutti i controlli, anche lui non ha resistito e al suo Italy, la! abbiamo rotto il ghiaccio. Mi ha raccontato che aveva un cliente italiano che gli aveva insegnato a dire Bello e Amore e poi rovistando nella immancabile borsa delle cianfrusaglie, ha tirato fuori dei mini origami a forma di animali e mi ha chiesto di prenderne un paio da dare ai miei figli. Lui gli origami li fa per passare il tempo insieme a tante altre cose che mi dice inventarsi per tenere la testa occupata e non deprimersi.
Per esempio, insieme alla moglie, vorrebbero offrire un servizio di nonni to rent visto che il loro unico figlio tarda a riprodursi: We could pick up your kids and take them to do activities so you get freedom.
Ho trovato l’idea tenera e geniale. Mi ha allungato il suo biglietto da visita se mai volessi essere la prima cliente. Mi immagino la faccia di Matteo e Tommaso che peraltro sono abituati alle mie alzate di ingegno.
Si è congedato consigliandomi la lettura di un libro che spiega come rinforzare la vista ed eliminare gli occhiali: No need for glasses la. Eyes are a muscle you must keep fit. E mi ha mimato un esercizio che lui fa regolarmente ma che sinceramente, a giudicare dal suo stile di guida, non mi è sembra molto efficace. Questo libro non me lo sono annotata ... la.

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