L'abbraccio

Martedì scorso, emersa da una settimana in isolamento per via di un tizio a scuola che si è beccato il Covid andando a vedere una partita di calcio a Madrid, mi sono preparata per andare al supermercato con un pizzico di titubanza indotta dal tono apocalittico dei messaggi che intasavano i vari gruppi Whazzup: sugli scaffali non c’ê più nulla, non si trovano le uova, è finita la carta igienica, manca la carne di pollo etc.

Ho riaperto il cassetto delle cianfrusaglie del mobile in camera da letto e ne ho estratto una mascherina in tessuto grigio con filtro, molto chic che, acquistata a Shanghai diversi anni fa, avevo conservato come souvenir anche se diverse volte è quasi finita in pattumiera.
Me la sono sistemata sulla faccia e il mio naso ha subito riconosciuto il profumo dell’ammorbidente che utilizzavo in Cina, regalandomi un breve ma intenso brivido di nostalgia.
Infilata in borsa una scatola di guanti di lattice, sono entrata in macchina con il senso di pesantezza e di disagio di chi non sa ancora bene cosa la aspetti.
Del resto è successo tutto con grande rapidità. La mia ultima uscita normale risale ormai a due settimane fa quando sono andata all’inaugurazione di una mostra e poi a cena con amici. Il giorno dopo, tempo di concedermi un ultimo taglio di capelli, ero già in quarantena con i bambini. Passati pochi giorni il governo israeliano mandava a casa tutti e, così, mentre ancora leggevo con sgomento e incredulità della catastrofe in Italia e nella mia Milano, mi ci sono improvvisamente ritrovata dentro anch’io.

Sono arrivata al supermercato in un soffio, cosa incredibile considerando il traffico delle cinque del pomeriggio che puntualmente intasa la superstrada che collega Tel Aviv a Herzelia Pituach. All’ingresso, la prima cosa che ho notato, oltre al solito quanto inutile agente della sicurezza attempato che, come sempre, pisolava su una sedia da ufficio sgualcita ma questa volta con una mascherina di carta appiccicata alla faccia, è stata un’intera parete di pacchi di carta igienica a cuori rosa, prodotto molto richiesto di questi tempi. Non ne avevo davvero bisogno ma non me la sono sentita di snobbarla e cosi due confezioni sono finite comunque nel carrello anche perché mi piacevano i cuori e adesso che si è ai domiciliari forzati bisogna nobilitare anche un gesto semplice e scontato come quello di pulirsi il sedere.
In giro, fra gli scaffali, poca gente che si muoveva con passo lento e guardingo in un silenzio davvero insolito per un supermercato israeliano dove normalmente il volume è alto. Si discute con i commessi, i commessi discutono fra di loro, si urla al cellulare anche per delle sciocchezze. Quante volte ho pensato che uno sconosciuto o una sconosciuta stessero minacciando di morte qualcuno al telefono quando invece: E’ la feta che vuoi? Allora, va bene, te la prendo!

Qualcuno mi ha fermato per chiedermi dove avessi comprato la mia mascherina che più seria e professional di quelle di carta mi dava l’ingannevole aspetto di una che di epidemie se ne intende. Alla mia risposta - Shanghai - seguiva un rapido sguardo di reverenza ed ammirazione, questa deve averne viste di cose del genere.
Manco per niente: la mascherina me l’ero procurata quando abitavo in Cina per difendermi dallo smog ma non la mettevo quasi mai perché quando camminavo mi faceva sudare e quando andavo in motorino mi creava condensa sugli occhiali. Senza contare che quando cercavo di parlare mi entrava in bocca e nessuno capiva nulla.
Con il Covid però non si scherza e allora, mentre mi avviavo verso la cassa, ho digitato il numero della mia carta sconti sul cellulare - il processo mentale per arrivare a questa soluzione ha preso diversi minuti - per non doverlo dire a voce e in ebraico al giovane cassiere arabo con gli occhiali spessi in tartaruga in cui mi ero già imbattuta diverse volte.
Un tipo solitamente timido e taciturno che però proprio questa volta aveva deciso di attaccare bottone chiedendomi come preparare dei ravioli simil Giovanni Rana che avevo
impilato sul nastro con la carta igienica a cuori.
Gli ho borbottato a fatica una risposta breve ed essenziale -acqua bollente, 5 minuti, pronti-sperando che la capisse, lo soddisfasse ma soprattutto terminasse la nostra conversazione.
Ma a questo punto il mio accento lo ha incuriosito più dei ravioli e la domanda che di questi tempi mi crea un misto di orgoglio e di fastidio non è tardata ad arrivare - Da dove vieni?
Italia.
Roma?
No, Milano - e stavo quasi per tranquillizzarlo sul mio stato di salute quando, con lo sguardo triste, mi ha detto - Amo l’Italia e mi dispiace moltissimo per quello che sta succedendo. Con una mano ha raggiunto il suo cellulare e mi ha mostrato orgoglioso una bellissima foto del Colosseo scattata l’autunno scorso quando è andato a Roma con la fidanzata.
- Gli Italiani sono davvero brava gente, semplici e di cuore. Spero che le cose migliorino presto!
Per un attimo l’impulso è stato quello di mollare sacchetti, mascherina, carrello e di andare ad abbracciarlo. Purtroppo non ho potuto cosi, ringraziandolo, gli ho detto che gli devo un abbraccio, che quando tutto sarà finito tornerò ad abbracciarlo.


Non credo che abbia capito ma mi ha sorriso.

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